Casa loro. Il futuro ha gli occhi di Mahmoud. Diario dal campo, di ritorno dalla Siria

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18/11/2025By Paolo Rozera

Mahmoud ha sette anni. Quando gli chiedono di disegnare ciò che lo fa sentire al sicuro, prende un foglio e disegna una casa e due amici. “Questa è la mia casa,” dice. “E questi siamo noi, che giochiamo.”

Mahmoud è nato in Libano, la Siria l’ha solo sentita nominare nei racconti dei genitori. Ora ci vive per la prima volta. Nel suo disegno non c’è la guerra, non ci sono muri distrutti né fili elettrici spezzati. C’è il sogno di un ritorno normale, la certezza che la casa — anche quando non esiste più — resta un luogo dell’anima.

Siamo a Jaramana, nella periferia di Damasco. Gli edifici sono scorticati dal tempo, dalle raffiche di proiettili e dalle esplosioni. Molte famiglie vivono in appartamenti condivisi da tre nuclei: otto, dieci persone in due stanze. Le pareti sono crepate, i balconi ricuciti con corde e pannelli di latta. Ma ogni mattina, davanti al centro nutrizionale UNICEF, arrivano madri con i figli in braccio. 

Qui ricevono visite pediatriche, controlli nutrizionali, consigli su come alimentare i bambini con quello che c’è. Alcune hanno lasciato il Libano dopo anni nei campi; altre sono rientrate dalla Giordania o dalla Turchia. “Siamo tornate per restare,” mi dice una di loro, con la voce che è insieme ferma e stanca. “Non vogliamo morire altrove.”

In questo centro, medici e operatrici locali spiegano come prevenire la malnutrizione, come riconoscere i segnali di rischio. L’UNICEF fornisce strumenti, formazione, medicine. Ma ciò che resta impresso non è la tecnologia: sono i sorrisi dei bambini, anche quelli che non hanno nulla.

Il Direttore Generale dell'UNICEF, Paolo Rozera somministra una bustine di RUTF ad un bambino siriano. Siamo nella periferia di Homs

I numeri raccontano una verità che non si può ignorare

In Siria oggi, più di 7,5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria. È un numero che non riesci a immaginare finché non lo vedi nei volti, nei corridoi degli ospedali, nelle mani delle madri che stringono le schede nutrizionali come fossero passaporti per la vita.

Secondo la Banca Mondiale, il reddito medio annuo in Siria è di appena 830 dollari, e una persona su quattro vive in povertà estrema. Dopo oltre un decennio di guerra, un terremoto, anni di sanzioni e una forte inflazione, l’economia è cresciuta solo dell’1 per cento nel 2025, dopo una contrazione dell’1,5 per cento l’anno precedente.

Nelle periferie e nei villaggi la vita è diventata un esercizio di resistenza quotidiana: in alcune aree l’elettricità arriva solo per due ore al giorno, in altre fino a sei, per chi può permettersi pannelli solari o generatori. L’acqua scorre a giorni alterni, e i prezzi del cibo continuano ad aumentare, rendendo difficile anche l’acquisto dei beni di prima necessità.

A Homs, in una delle aree più colpite del paese, visitiamo una chiesa trasformata in centro educativo. L’ISIS l’ha distrutta due volte, decapitato i religiosi, cancellato ogni simbolo. Ora, tra le sue mura scurite, si tengono lezioni di sostegno per bambini e incontri di formazione per madri. È un Child Friendly Space gestito da un’organizzazione locale, con il supporto dell’UNICEF.

Le donne imparano a parlare con i figli adolescenti, a gestire la rabbia e la paura. “Abbiamo capito che possiamo ricominciare,” dice una madre mentre il figlio disegna vicino a lei. Ma ricominciare non è facile: molte guadagnano 40 dollari al mese cucendo o facendo piccoli lavori domestici. Gli affitti, invece, costano 250–300 dollari, e spesso l’acqua potabile arriva da camion privati che la vendono cara, senza garanzie di sicurezza.

Ogni settimana arrivano nuovi iscritti: piccoli che non hanno mai frequentato una scuola. Nel Paese, 2,45 milioni di bambini tra i 5 e i 17 anni sono ancora fuori dal sistema educativo. Alcuni non hanno mai avuto un banco, altri lo hanno perso con la guerra. Qui, per la prima volta, imparano a scrivere il proprio nome su un quaderno.

Com’è la vita per chi è rimasto? È una vita sospesa tra orgoglio e precarietà.

Nelle città le infrastrutture tornano lentamente a funzionare; nei villaggi, la ricostruzione è affidata alla pazienza. A Damasco l’elettricità salta ogni giorno. Le fognature vengono riparate a tratti. Eppure, in mezzo a tutto, c’è un sentimento che assomiglia alla speranza: la volontà di restare, di non essere più “profughi”. 

Nei campi del Libano, della Giordania e della Turchia, la vita era organizzata, ma non apparteneva a nessuno. In Siria, invece, anche la fatica è propria: si appartiene alla terra che si ripara.

Secondo le Nazioni Unite — dati utilizzati anche dall’UNICEF nei suoi rapporti — oltre 6,8 milioni di siriani sono ancora sfollati interni, e quasi 5 milioni vivono nei Paesi confinanti. Molti vogliono tornare, ma sanno che ad attenderli ci sono case distrutte e stipendi insufficienti. È la contraddizione più grande di questa Siria che rinasce: la libertà del ritorno, senza le condizioni per viverla pienamente.

A Al-Qaryateen, nel deserto di Homs, incontriamo un gruppo di bambini che frequentano il doposcuola dell’UNICEF. Parlano poco, sorridono molto. Le operatrici controllano i braccialetti MUAC, li pesano, li registrano: più di due milioni di minori in Siria sono oggi a rischio malnutrizione. Ogni punto rosso su quel metro colorato racconta una vita che pende sul confine tra fame e sopravvivenza.

“A volte non abbiamo abbastanza per cena,” dice un bambino. “Ma qui ci danno forza.”

A pochi chilometri, ad Ashira, una squadra mobile di protezione incontra madri e adolescenti. Le donne raccontano che la corrente arriva due ore al giorno. I ragazzi, tra i dodici e i diciassette anni, sognano di diventare architetti, piloti, calciatori. 

Nei campi avevamo un campo da basket e la luce di sera. Qui non ho computer, non ho tempo. Io sono rimasto sempre qui, ma sento di non avere un futuro. Le sue parole pesano come un bilancio in rosso.

Ahmed, 17 anni, racconta la differenza tra la vita nel campo rifugiati e quella in Siria

L’UNICEF, non porta solo assistenza. Costruisce continuità

Ad Idleb, la scuola Mostafa Al Bakri è stata ricostruita dove c’erano solo macerie. Centocinquanta bambine e duecento bambini tornano a studiare in aule luminose, con lavagne nuove e pannelli solari sul tetto. “È l’unico modo per convincere le famiglie a restare,” spiega l’insegnante.

Ad Aleppo, un’ex centrale elettrica è diventata un centro giovanile. Dove c’erano turbine e cavi, oggi ci sono laboratori di coding, sale di musica, corsi di fotografia. I ragazzi costruiscono droni con materiali riciclati, sperimentano robot, presentano i loro progetti come piccole start-up.

È la Siria che non si racconta quasi mai: quella che non aspetta gli aiuti, ma li trasforma in opportunità.

Ogni centro sanitario o educativo è progettato con un piano di transizione: quando il governo sarà pronto, passerà la gestione al livello locale. È una forma di cooperazione che lavora sull’autonomia, non sulla dipendenza. Si formano operatori, si creano reti, si coinvolgono le comunità.

La vera sostenibilità, in un Paese come questo, non è nei progetti, ma nelle persone.

E poi c’è la comunità: uomini e donne che puliscono le strade, ridipingono i muri, piantano alberi nei quartieri distrutti. 

Quando i vicini vedono che una via è più bella, vogliono fare lo stesso. Così inizia

Un volontario racconta il processo di ricostruzione basato sulla comunità

La Siria è un mosaico di ferite e ricomposizioni

Nel viaggio da Aleppo verso sud, la distruzione si alterna ai segni del ritorno. Case senza tetto, ma con tende stese ad asciugare, e serbatoi d’acqua sospesi su quello che resta dei tetti, come equilibristi di plastica che sfidano la gravità e la mancanza.

Bambini che attraversano le rovine per andare a scuola, le madri accanto.

Ha perso più della metà del suo prodotto interno lordo in quattordici anni, ma non ha perso la voglia di vivere.

Mentre la Siria cerca di rialzarsi, l’UNICEF continua a lavorare con un appello umanitario da quasi 500 milioni di dollari, destinato a salute, istruzione, acqua e protezione. È una cifra enorme. Ma la rinascita del Paese dipenderà anche da ciò che il mondo saprà fare insieme: dal sostegno della Banca Mondiale, da investimenti esteri capaci di creare lavoro e fiducia, da un impegno internazionale che accompagni, senza sostituire, la forza delle comunità siriane.

Solo così le scuole, gli ospedali, le case ricostruite non resteranno isole di speranza, ma semi di un’economia che torna a respirare.

Guardando i bambini che tornano a scuola tra le rovine, sembra chiaro che il futuro della Siria non è una promessa: è una responsabilità condivisa.

Quando, la sera, guardi Aleppo dall’alto e vedi le luci che si spengono una dopo l’altra, pensi che casa non è solo un tetto o una stanza. È un diritto da riconquistare ogni giorno.

La Siria può farcela, se il mondo la guarda non come un’emergenza infinita, ma come una terra di ritorni.

E Mahmoud, con il suo disegno di casa e amici, l’ha capito prima di noi tutti.

18/11/2025By Paolo Rozera

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