Ventimiglia. Cronache dal confine nord ovest

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13/12/2022

Siamo a Ventimiglia, ultimo comune italiano prima della frontiera con la Francia, zona costiera che attrae ogni anno molti turisti ma anche luogo di transito per tanti migranti e rifugiati arrivati in Italia via mare o attraverso la cosiddetta rotta balcanica e intenzionati a raggiungere la Francia o altri Paesi vicini, spesso per ricongiungersi con familiari e/o conoscenti.

“Ventimiglia è un imbuto – spiegano gli operatori sul posto – Qui passano le persone in transito ma troviamo spesso anche persone che ritornano, molte volte dopo un tentativo di uscita dal Paese non andato a buon fine”.

I potenziamenti del controllo della polizia di frontiera nei pressi del Ponte San Ludovico e le code di auto hanno recentemente sollevato l’attenzione dei media.

Ma l’attraversamento in “taxi” – così vengono definite da chi tenta il percorso le auto dei trafficanti che offrono passaggi dietro pagamento di qualche centinaio di euro - resta lo spostamento meno utilizzato. Non sono in tanti a potersi permettere di pagare la cifra richiesta. Resta stabile, infatti, la media dei respingimenti e il Ponte San Luigi, il passo di montagna che si apre subito sopra, e la stazione dei treni, restano i punti più battuti. In queste aree si snoda l’azione dell’UNICEF in collaborazione con Save the Children.

I resti di una tenda, valigia e abiti lasciati in spiaggia

A Ventimiglia aspettative e sfiducia sono la costante che spinge uomini, donne, minorenni soli in transito a diventare facili prede di trafficanti e passeur. Arrivare prima e informare sui rischi significa offrire un’alternativa sicura attraverso canali regolari, prevenire possibili casi di sfruttamento e abusi e, a volte, anche morti evitabili. Tra le prede più facili, donne e bambini. Per loro l’UNICEF e Save the Children hanno allestito uno spazio sicuro che offre primo supporto e risposta ai bisogni di base oltre che informazioni salva-vita.

Ventimiglia-Mentone, Ponte San Luigi

Sono tanti ogni giorno a passare da Ventimiglia. C’è chi arriva con le valigie, diretto verso le strutture recettive e i ristoranti tipici, chi invece viaggia con un solo zaino, con il minimo indispensabile perché qualsiasi peso aggiuntivo potrebbe rallentare un viaggio già molto faticoso, che raramente trova ristoro nei pochi servizi di supporto attivi. 

In alcuni dei luoghi di maggiore traffico è facile trovare qualche gioco abbandonato, vestiti, scarpe, quanto era di troppo o quanto è stato perso nel percorso. Quanto ai proprietari di quegli oggetti, non è noto l’esito del viaggio: alcuni di loro arrivano in Francia, altri ricevono un refuse d’entré e sono costretti a tornare indietro. Chi viaggia porta con sé poche cose, quasi sempre quel che basta è un biglietto con un nome e un indirizzo, altre volte un telefono per restare in contatto con chi aspetta dall’altra parte.

Sono per lo più eritrei, afghani e sudanesi. A volte chi ha intrapreso il viaggio lo fa perché già dalla partenza aveva individuato l’Europa centrale e settentrionale come area di destinazione. Molto spesso chi si muove verso una meta specifica ha parenti sul posto, o si muove con persone che hanno già una rete solida di connazionali. Altre volte la spinta è linguistica, perché se bisogna ricominciare, è più facile farlo in un posto dove la lingua non rappresenta un ulteriore scoglio all’integrazione.

L’Italia è uno dei Paesi più tutelanti nei confronti dei minori stranieri non accompagnati, tuttavia persiste una disomogeneità dei servizi tale per cui le opportunità possono variare da centro a centro. Tante delle persone incontrate dal team per strada non hanno un’idea chiara di dove si trovino, né quanto ci voglia per raggiungere la Francia, a volte non dispongono neanche di informazioni sui diritti che spettano a molti di loro in termini di protezione.

È il caso di A., viene dalla Guinea, con lui viaggiano anche la moglie e la figlia con il marito. Lo incontriamo nei pressi del ponte San Luigi. Parla un italiano perfetto. Ci mostra le mani di chi, per anni, ha coltivato la terra. Racconta di essere arrivato in Italia anni prima, di aver lavorato nei campi per tanto tempo. Adesso che la famiglia l’ha raggiunto hanno deciso di proseguire il viaggio. È spaesato quando gli diciamo che non si trova in Francia, che siamo ancora in Italia. Sopra di noi il cartello che lo indica, mentre 200 metri più avanti quell’altro cartello che indica la meta, vicinissima e al tempo stesso irraggiungibile. Si dispera, non vuole tornare indietro. Continua a chiederci perché non può proseguire.

Tra gli incontri della giornata anche una famiglia del Kurdistan Iracheno, madre, padre e due figlie. Lei 38 anni, lui 44 ma ne dimostrano molti di più. Ci dicono che non si fermano da tre mesi, che sono stanchi, ma che vogliono arrivare in Germania, che quel viaggio è per il futuro delle loro figlie. Nonostante la stanchezza scherzano, le figlie sorridono. Una di loro, un viso simpatico e due codine che scendono lungo il volto, porta un peluche chiuso dentro al cappotto, per paura di perderlo. A loro riusciamo a segnalare uno degli alloggi temporanei per famiglie messo a disposizione da organizzazioni della società civile attive in città. Sono felici, ci dicono che ci raggiungeranno per fermarsi qualche notte.

Nella frazione di Grimaldi, all’inizio del percorso che porta al passo montano ormai conosciuto come “passo della morte” - per via dell’epilogo di molti dei viaggi che iniziano lì - incontriamo due ragazze della Guinea Conakry, entrambe ventiduenni. Non sanno quanto è distante da lì la Francia. Sono circa 9-10 km, in tutto 2 ore e trenta di cammino per chi conosce la strada, ma che diventano spesso 6-8, e che si concludono in molti casi con una ritirata.

Fuori ci sono 14 gradi, una temperatura non troppo bassa per il periodo. C’è un sole tiepido che però al tramonto lascia spazio a un vento più freddo. A passi lenti, arriva vicino a noi una ragazza. Ha addosso una maglia e un pantalone leggeri, scarpe da scogli, è avvolta da un asciugamano che copre la schiena e che lega sotto la vita. Proviamo a sapere di più su di lei. Si chiama A., ha solo 16 anni, viaggia da sola dalla Costa d’Avorio. Arriva solo il mese scorso a Lampedusa, ancora incinta. È lì che partorisce. Mentre ne parla sotto l’asciugamano vediamo un movimento. Lei abbassa il telo. Vediamo K., un bambino di sole 3 settimane. Due bambini che viaggiano insieme, ma lei negli occhi è già un’adulta. A. è entrata in accoglienza in Sicilia, ad Agrigento. Ma la vita nella struttura di accoglienza non è facile  e così va viaper proseguire il viaggio. Vuole raggiungere il fratello in Francia. Sa che lui sta bene. Ha con sé solo il suo numero, pochi pannolini, una tutina per il piccolo.

Accetta di venire con noi nello spazio sicuro allestito in collaborazione con Save the Children, dove il team ha creato uno youth corner dedicato ad adolescenti e giovani e un woman and girls safe space per ragazze e donne in condizioni di vulnerabilità, mamme e bambini.

Il Safe Space, uno spazio a misura di donne e bambini

Nei percorsi di migrazione, donne, bambine/i e persone con vulnerabilità specifiche, sono sempre i soggetti più a rischio. Un pericolo che aumenta esponenzialmente in caso di compresenza di più fattori di vulnerabilità, come nel caso di donne e minori non accompagnati con disabilità. Il Safe Space realizzato dall’UNICEF in collaborazione con Save the Children, è un luogo sicuro, protetto dai rischi esterni, rivolto esclusivamente a donne, famiglie e bambini, dove trovare ristoro. Dopo giorni in strada, i primi bisogni a cui si cerca di rispondere sono quelli di base: mangiare, bere, riposare, fare una doccia, usufruire dei servizi igienici.

Lo spazio è un luogo di passaggio temporaneo, c’è chi si ferma in strutture gestite da organizzazioni in loco per pochi giorni, e torna più volte allo spazio, chi invece si ferma per poche ore e riprende il percorso. È in quella frazione di tempo che le operatrici creano un clima sicuro che favorisce da una parte il racconto, dall’altro l’ascolto. Il team cerca inoltre di fornire informazioni utili all’orientamento.

Mostrano il luogo esatto dove ci si trova e condividono una mappa del rischio, allertando sui possibili pericoli. Seppure un contesto di transito non permette un’analisi in profondità dei casi che si presentano, il rischio di isolamento e abuso resta sempre molto alto e il primo supporto psicosociale resta fondamentale anche per chiarire le motivazioni delle scelte in corso e provare a valutare alternative sicure attraverso canali regolari di passaggio.

Il Safe Space funziona anche perché permette di creare un network [...] una relazione di fiducia se chi passa da qui incontra qualcuno che ha già conosciuto, è il caso recente di una mamma eritrea che proprio qui ha incontrato un’altra donna conosciuta in Libia, capiscono di potersi fidare e ritornano.

Un'operatrice del Safe Space

Nello spazio si alternano team che garantiscono i servizi nelle fasce orarie diurne e team che seguono casi esterni segnalati, spostandosi nelle zone di maggiore transito. Operatrici e operatori lavorano in équipe, garantendo sempre la mediazione linguistica e culturale, strumento indispensabile per permettere a chi sta dall’altra parte di comunicare le proprie necessità ed essere compreso. 

Bambine e bambini che affrontano un viaggio come questo crescono più in fretta rispetto ai loro coetanei. Le operatrici ricordano B., un bambino che aveva paura di lasciare sola la mamma. Ogni gesto, ogni timore, nel Safe Space, è sintomo di qualcosa. Dal racconto di entrambi verrà fuori che la mamma è tra le donne accolte sopravvissute a violenza, una spiegazione che spiega quel misto di paura e senso di protezione del bambino nei confronti della madre. È ora di andare. B. fa un cenno alla mamma, vuole portarla al sicuro.

Capita anche – spiegano le operatrici – di vedere nuclei apparentemente uniti ma con uno dei componenti che mostra evidenti segni di disagio. In alcuni casi si tratta di parentele fittizie. Alcune di queste storie portano anche alla separazione del nucleo da parte delle autorità, si tratta sempre di decisioni molto delicate e di una valutazione caso per caso sulla base del superiore interesse del minore” dicono.

Le aree dello Youth Corner e del Woman and Girls Safe Space sono anche spazi colorati, arredati con piccoli banchetti pieni di giochi, fogli e pennarelli, alleggeriti dai disegni alle pareti. Tra questi, un cartellone che riporta le sagome e i nomi di tutti i piccoli ospiti che l’hanno attraversato.

Il gioco è fondamentale. Restituisce a bambine e bambini quell’alone di normalità, riportandoli a una dimensione che spesso dimenticano in viaggio. Inoltre, il clima sereno permette spesso di aprirsi al racconto.

È successo ad esempio con una bambina di 8 anni che conosciamo quel giorno, e che chiameremo Hope. La bambina, camerunense, è lì con il fratellino di 4 anni e la mamma. Hope ha sempre un sorriso dolce, è molto paziente e protettiva nei confronti del fratello. Il piccolo gioca con una valigetta gialla di plastica, che riempie di macchinine e robot. Hope invece colora pazientemente la sua piccola sagoma, attenta a restare con i colori dentro i bordi neri del pennarello. Sempre sorridente ci racconta cosa vuole fare da grande: “la poliziotta” dice. Poi sorride, quasi intimidita, e riprende “in Libia la polizia è cattiva. C’erano persone che ne colpivano altre con del vetro. Qui no, io da grande voglio diventare come loro”. Sorride, come fosse una confidenza comune. Si allontanerà poco dopo, non prima di aver appeso la sua sagoma tra le altre dello spazio, insieme alla mamma e al fratellino, con la sua valigetta di plastica.

Tutte le attività che si svolgono all’interno dello spazio comportano necessarie cautele da parte del personale.

“È un continuo “indovina chi – ci dicono – abbiamo spesso di fronte presunti mariti, presunte zie, presunte mamme. Non puoi sapere mai se lo sono davvero o se invece sono persone che fingono di fornire protezione con l’intento di sfruttare le necessità. Mantenere l’ambiente protetto è fondamentale per garantire la sicurezza di donne e bambini”.

Nel frattempo, la famiglia del Kurdistan Iracheno raggiunge il Safe Space. Sorridono nell’incontrare di nuovo le operatrici, non vedono l’ora di riposarsi in un posto caldo.

La stazione

Nonostante le stazioni siano i posti più complessi dove condividere informative, il team UNICEF-Save the Children è riconosciuto spesso da persone già incrociate o che già conoscono gli spazi dello Youth Corner o del Woman and Girls Safe Space. “Che cosa devo fare?” è una domanda spesso rivolta alle operatrici e agli operatori sul posto. 

Le operatrici del team riconoscono intanto la bambina della segnalazione. Bambine e bambini che viaggiano da soli, o che mostrano particolari segni di fragilità, o ancora accompagnate/i da persone che visibilmente non fanno parte dello stesso nucleo devono essere segnalati.
Tra le persone che quel giorno aspettano in stazione anche Hope e il fratellino, insieme alla mamma. Il piccolo ha ancora con sé la valigetta gialla con i giochi raccolti nel Safe Space, sarà il suo unico bagaglio per il viaggio.

A Ventimiglia il supporto alle persone in transito e le soluzioni di accoglienza sono fornite da una rete contenuta di organizzazioni italiane e francesi in loco. Ogni mese sono circa una settantina i minori che attraversano il confine, solo pochi si fermano, degli altri si perdono le tracce. Garantire un’accoglienza strutturata risulta fondamentale per affrontare le sfide tipiche dei luoghi di transito. 
Un meccanismo di responsabilità condivisa a livello europeo tra gli Stati Membri e lo snellimento delle procedure per il ricongiungimento familiare - per i minori che hanno familiari in altri paesi europei – risulta fondamentale infine per garantire a bambine/i, adolescenti e persone in stato di bisogno una piena protezione e il rispetto dei loro diritti fondamentali. 

13/12/2022

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