Vogliamo un'appartenenza! Una narrazione alternativa su giovani, migranti e inclusione sociale

9 minuti di lettura

19/06/2019

Virginia Barchiesi, 16 anni, è studentessa del Liceo classico "Vittorio Emanuele II" di Jesi e responsabile per le Marche di Younicef (il movimento giovanile di volontariato dell'UNICEF Italia). Il testo che presentiamo di seguito è la traduzione italiana del suo intervento (in inglese) all'iniziativa "Anime Salve", tenutasi il 1° giugno 2019 a Jesi.

Puoi guardare il video dell'intervento a fine testo

***
 
Uno scansafatiche è qualcuno che evita abitualmente di lavorare o a cui manca l’etica del lavoro.

Se cercassimo questo termine su Twitter, scopriremmo facilmente che, nell’odierno discorso politico, le due categorie della popolazione che più spesso si abbinano a questo termine sono i giovani e i migranti (o rifugiati).

E tra voi, chi non ha mai pensato ai giovani e ai migranti come scansafatiche, alzi la mano per favore.

Vedete: è un pregiudizio comune! La narrazione attuale mette i giovani e i migranti in fondo alla società e li priva di qualsiasi valore sociale. In ogni caso, scommetto che la maggior parte di voi ha fatto esperienza della narrazione opposta, leggendo i giornali o guardando il telegiornale.

Tutti conoscono la giovane Greta Thunberg, che ha mobilitato milioni di giovani portandoli ad agire contro il cambiamento climatico, o Malala Youszafai, che ha vinto il premio Nobel per la pace dopo aver ricevuto una pallottola in testa perché si batteva per l’istruzione delle ragazze.

Sono anche abbastanza sicura che abbiate sentito parlare sentito dei tre migranti che hanno ricevuto la cittadinanza greca, dopo aver salvato delle persone dall’incendio devastante scoppiato vicino ad Atene lo scorso luglio.

Ora potreste chiedervi per quale motivo sto tenendo un TED Talk su questo argomento, visto che non ho mobilitato un milione di giovani, non ho ricevuto il premio Nobel per la pace e non ho mai salvato una vita.

Bene, questo è esattamente il motivo della mia presenza qui.

Sono su questo palco, davanti a voi, per dire forte e chiaro, che oltre agli eroi che finiscono in prima pagina per le loro imprese straordinarie, ci sono milioni e milioni di giovani e di migranti, di solito non ascoltati, che stanno operando lentamente ma con efficacia per modificare e ricostruire le proprie comunità.

Questi attori del cambiamento poco conosciuti, non si impegnano per aggiungere esperienze ai loro curricula, per vincere premi, e nemmeno per ricevere un riconoscimento pubblico.

Agiscono perché vogliono dare un senso alla propria vita e la preziosa ricompensa che ricevono è di agire secondo la propria umanità.

Sono qui per raccontare le storie di alcuni di loro.

Penso che ognuno abbia bisogno di un obiettivo nella propria vita per poter godere di un’esistenza significativa, felice e appagante.

Crescendo, le due cose che amavo di più erano viaggiare e leggere. Mescolando questi due interessi insieme ho cominciato ad appassionarmi a nuove culture e ad apprendere lingue straniere: nello stesso periodo ho scoperto l’autobiografia di Malala. Leggendo quel libro ho capito, una volta per tutte, che volevo seguire il suo esempio. Volevo dedicarmi all’umanità dimenticata e alleviarne le sofferenze.

Poiché avevo solo 11 anni tutti mi dicevano che non potevo farlo ancora. Ero troppo piccola. Sarei dovuta andare all’università e trovare un lavoro alle Nazioni Unite: allora forse sarei stata effettivamente in grado di raggiungere il mio obiettivo di aiutare chi ne aveva più bisogno.

Ma, all’età di 14 anni, durante il mio primo anno di liceo, ho capito che non bisogna per forza lavorare in situazioni d’estrema emergenza per cambiare il mondo o per aiutare gli altri.

In ogni comunità vivono persone dimenticate, relegate al fondo della piramide sociale.

Ho quindi cominciato a mandare delle e-mail ad associazioni di volontariato, per riuscire ad intraprendere un percorso da volontaria.

Nessuno mi rispondeva, all’inizio, e ho davvero cominciato a pensare di essere troppo giovane per fare volontariato in qualsiasi organizzazione.

A maggio, ho scoperto che l'UNICEF aveva un gruppo di volontari nella mia zona. Ho mandato una mail al Comitato di Ancona … non mi aspettavo una risposta, in realtà!

Ma la risposta è arrivata e ho partecipato alle attività di volontariato di questa organizzazione per due anni, anni pieni di soddisfazioni e di sfide!

Durante questi anni ho capito che le istituzioni difficilmente integrano i giovani nei loro processi decisionali e sembra sempre che stiano concedendo loro un privilegio e un onore, se li accolgono al tavolo delle negoziazioni.

Per questo non dobbiamo aspettare di essere invitati ma dobbiamo andare a prendere il posto che ci spetta.

Dobbiamo unirci e cambiare le cose dal basso se continueremo ad essere trattati come gli esclusi della società.

Oggigiorno, quelli che sono descritti come scansafatiche, incapaci di cambiare il mondo e desiderosi di fare il meno possibile sono i migranti e i giovani, come tutti voi potete facilmente sentire, ascoltando i discorsi della maggior parte dei politici.

Ma indovinate un po’? I giovani e i migranti sono esattamente quelli che stanno rivitalizzando il tessuto della società civile e aprendo la strada al cambiamento in tutto il mondo.

Un esempio è un progetto a cui ho preso parte.

Avevo organizzato un evento con la portavoce di UNHCR per parlare dei rifugiati in Italia e all’estero.

Tra il pubblico di studenti c’erano alcuni giovani migranti che hanno alzato la mano alla fine del talk e hanno detto che significava molto per loro che le persone fossero interessate a loro e che giovani studenti s’interessassero alla loro situazione.

La loro gratitudine ha toccato molti giovani nella platea e dopo un paio di settimane siamo andati presso l’organizzazione che li ospitava, cominciando a visitarli molto spesso.

Parlavamo della nostra vita, dello studio, del lavoro, dei piani per il futuro e ci scambiavamo idee, opinioni e storie.

Erano estremamente disponibili a parlare del loro viaggio, di ciò che si erano lasciati dietro, di ciò che avevano perso, del perché erano partiti.

Alcuni avevano una famiglia a casa, alcuni avevano figli, altri un lavoro e una posizione rispettata. Alcuni avevano iniziato il loro viaggio con parenti o amici. Altri erano soli. Alcuni si erano spostati tra i confini di decine di paesi dell’Africa sub-sahariana per anni. Altri sono andati direttamente in Libia e poi in Europa.

Alcuni volevano terminare la propria istruzione, altri trovare un lavoro.

In ogni caso, tutti avevano lo stesso sogno: trovare la pace e integrarsi in una comunità.

E abbiamo capito che in qualche modo il nostro sogno di adolescenti era lo stesso: essere in pace con noi stessi e con gli altri e trovare il nostro posto nel mondo.

Insieme a questi giovani migranti e rifugiati e ai dipendenti dell’organizzazione, abbiamo deciso di filmare un video da mostrare durante la giornata mondiale del rifugiato, il 20 di Giugno.

Il video era pensato come un’intervista dove gli studenti della nostra scuola e i migranti dovevano rispondere al le stesse domande e l’obiettivo era mostrare che tutti davamo le stesse risposte, perché siamo tutti esseri umani, con le stesse paure, sogni, speranze…

Nel giugno 2017 ho iniziato il mio primo progetto con UNICEF: insegnavo ai bambini, figli di migranti o rifugiati, l’italiano, in modo tale che si potessero integrare meglio con i loro compagni e avere miglior profitto a scuola.
 
Era sicuramente un lavoro difficile, visto che non avevo esperienza come insegnante e non ero molto più grande di loro forse è proprio per questo che mi hanno insegnato molto di più di quanto io abbia insegnato loro.

Un giorno, una bambina di 8 anni del Bangladesh, dopo l’ennesimo tentativo di finire un esercizio di matematica, mi ha detto: ”Sai Virginia, a volte vorrei tornare a casa, in Bangladesh”.

Le ho chiesto subito perché. Ero abbastanza sicura che l’istruzione e le opportunità che poteva avere là non erano niente in confronto a quello che poteva ricevere qui. È per questo che si migra, pensavo.

Mi ha risposto descrivendo la sua vita in Bangladesh: viveva in un’area molto povera, in una capanna senza bagno o acqua corrente.

In ogni caso, mi disse, erano felici. Partecipava a molti matrimoni ed era molto brava a dipingere le mani e i piedi della sposa con l’henné. Andava alla scuola del villaggio la mattina, dove conosceva tutti i bambini e dopo pranzo giocavano tutti insieme nel giardino della moschea.
 
Era felice, perché aveva la sua famiglia lì, i suoi amici, una comunità a cui sentiva di appartenere. Non ha mai più parlato così tanto nel periodo di tempo in cui ho insegnato lì.

Queste parole sono rimaste scolpite nella mia memoria per molto tempo. Per un paio di mesi non sono propriamente riuscita a comprenderne il significato profondo. Ma poi qualcosa è scattato dentro di me.

Ho capito che le cose realmente importanti nella vita non sono le opportunità, né i successi, ma invece le relazioni umane, l’essere parte di una comunità, il sentirsi parte di qualcosa di più grande.

Ciò di cui ogni individuo ha bisogno, infatti, è un senso di appartenenza. Un senso di identità positiva, come mi piace chiamarla. Ogni individuo deve poter dire io sono un membro di questa comunità e ad essa appartengo. Questo è ciò che sono. Questo è ciò per cui mi batto.

Nelle parole di Brené Brown: “Un senso profondo d’amore e d’appartenenza è un bisogno irriducibile di tutte le persone. Siamo biologicamente, cognitivamente, fisicamente e spiritualmente fatti per amare, per essere amati e per appartenere. Quando questi bisogni vengono meno, non funzioniamo come dovremmo. Ci rompiamo. Ci spezziamo. Ci intorpidiamo. Soffriamo. Facciamo del male agli altri. Ci ammaliamo.”

Perciò, tornando all’inizio del mio discorso, se non coinvolgiamo i giovani e i migranti, se non diamo loro una possibilità di entrare nella vita pubblica, se non li facciamo sentire parte di una comunità dove hanno un ruolo specifico e dove sono ascoltati, stiamo togliendo loro il senso di appartenenza.

Il terrorismo, i foreign fighter, le forme d’odio e violenza nelle scuole: derivano tutti da questo mancato senso di appartenenza.

Se vogliamo lottare contro la violenza, l’odio, il fanatismo e il terrorismo questo è ciò che dobbiamo fare: dobbiamo coinvolgere le persone, dobbiamo includerle, dobbiamo dare loro un posto al tavolo delle decisioni.

(Virginia Barchiesi)

19/06/2019

News ed Aggiornamenti