Nati a Shatila: il diritto di scegliere
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Il memoriale all’ingresso del campo di Shatila ricorda il massacro del 1982 (migliaia di morti, per lo più donne, vecchi e bambini, uccisi dai falangisti cristiani mentre i militari israeliani circondavano il campo), ma ricorda anche gli altri, troppi massacri di innocenti nella storia recente dei palestinesi in Libano.
È difficile capire davvero cosa significhi nascere e crescere in una realtà come questa, bloccati tra conflitti atroci e paci precarie, cosa significhi nascere e crescere in uno spazio così disastrato ma anche così fortemente segnato sul piano simbolico come Shatila, tra muri coperti di volti di martiri, manifesti delle varie fazioni politiche, appelli alla resistenza.
Visitiamo lo “spazio amico dei bambini” gestito nel campo dal “Centro per i bambini e i giovani”, con finanziamenti di UNICEF, Save the Children e Unione europea: uno spazio sicuro e attrezzato per il recupero scolastico, il gioco e le attività sociali, frequentato da oltre 200 ragazzini tra 5 e 18 anni, con una biblioteca di 4.700 libri e un discreto assortimento di giochi e materiali. Qui opera un bel gruppetto di sorridenti insegnanti e volontari che dimostrano spesso meno dei loro 20-30 anni.
La direttrice, Abeer Kassem, al settimo mese di gravidanza, ci sciorina sorridendo dati e problemi, solare come poche pur esponendo lucidamente le difficoltà del lavoro quotidiano: «in situazioni come questa tutti hanno bisogno di sostegno psico-sociale, dobbiamo seguire i bambini ma non solo qui, anche in famiglia e a scuola: la continuità del sostegno è fondamentale».
Abbas Moujahed ha frequentato il centro da bambino, ora ci lavora come volontario: «mi ha aiutato molto venire qui, sono cresciuto grazie al centro, per questo ci lavoro, per dare ai bambini un’alternativa, per dar loro il diritto più importante, il diritto di scegliere, di poter pensare di vivere diversamente».
Energia positiva a servizio dei bambini
Nancy El Hajjeh, 26 anni, dice che qui al centro ha imparato come farsi valere, come parlare con la gente e farsi ascoltare, ma che ogni tanto pensa ai bambini che vivono fuori dal campo: «per loro giocare è normale, a me ancora adesso piacerebbe giocare, l’ho fatto troppo poco». È stata in Italia lo scorso anno con un programma di scambi, si ricorda di una serata passata a ballare in un centro sociale romano… È nata e cresciuta a Shatila dopo il massacro, in questo posto che pare un inferno, eppure la sua vitalità è contagiosa.
Sarà lei ad accompagnarci in uno dei luoghi simbolo di Shatila, una ex moschea trasformata in cimitero durante i bombardamenti e l’assedio del 1986 da parte delle milizie filo-siriane di Amal, quando non si poteva uscire dal campo neppure per seppellire i morti. «Lì c’è sepolta mia sorella grande», dice tranquilla indicando una delle fosse comuni ricoperte d’intonaco «e anche mia cugina».
La sua energia positiva la indirizza verso i bambini che frequentano il centro, per dare loro allegria e speranza. Pensiamo ai luoghi comuni sulle donne islamiche, a quanto sono falsi, a quanto invece la sua bellezza e la sua voglia di vivere sembrino manifesti di un futuro diverso – e possibile. Come spesso in questo viaggio, ci vergogniamo un po’... per il poco che facciamo per questi ragazzi, con questi ragazzi.