La scuola dopo la guerra. Racconto di viaggio dal Libano
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A settembre 2010 una delegazione dell’UNICEF Italia si è recata in Libano per visitare i progetti scolastici finanziati negli anni precedenti (insieme a Un ponte per…) e per lanciare il nuovo progetto di sostegno scolastico nel sud del paese, attuato dall’UNICEF con la collaborazione degli scout libanesi e il sostegno delle forze italiane dell’UNIFIL e del Comitato provinciale UNICEF di Caserta. Durante la visita, che ha toccato anche varie altre iniziative per scuole e comunità “amiche dei bambini”, sostenute dalla Cooperazione italiana allo sviluppo, la delegazione italiana ha visitato diversi campi profughi palestinesi, dove l’UNICEF – anche con il sostegno del Comitato italiano – attua varie iniziative a favore dell’infanzia.
Quello che segue è il racconto di queste visite da parte del Presidente del Comitato Italiano per l’UNICEF Vincenzo Spadafora, della componente del Consiglio direttivo Maria Giovanna Irene Fusca e di Donata Lodi, responsabile relazioni internazionali e advocacy nazionale.
Nahr El Bared, la tragedia dimenticata
Poche cose ti danno rabbia e un senso profondo di ingiustizia, di torti dimenticati dal mondo e non riparati, come certi incontri che facciamo nei campi profughi palestinesi.
Marwa El Hab, 22 anni, fa la volontaria nel centro protetto creato dall’UNICEF nel campo di Nahr El Bared (Nord del Libano, vicino a Tripoli). È nata fra queste rovine puzzolenti di fogna, la casa dei suoi genitori è fra le tante distrutte negli scontri del 2007 tra miliziani di Fatah El Islami ed esercito libanese, che ha raso al suolo gran parte del campo, come vediamo girando in macchina tra distese di rovine e avvisi sul pericolo di bombe rimaste inesplose.
La popolazione stimata nel campo di Nahr el Bared prima degli scontri e della distruzione del campo nel 2007 era di circa 40.000 persone. Al momento sono stimati tra i 10 e 15mila abitanti rientrati dopo gli scontri e in attesa della ricostruzione, che stenta a partire – comunque la famiglia di Marwa abitava nel lotto 7, ci dice tranquilla, che sarà tra gli ultimi a essere ricostruiti. Ora lei vive coi genitori in una casa del campo pagata con un fondo dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i profughi palestinesi, per la quale lavora anche come maestra elementare.
Qui presso il centro dell'UNICEF è volontaria insieme ad altre 7 ragazze e 2 ragazzi, d’estate pensano soprattutto a far giocare i bambini con le altalene e gli scivoli colorati donati dall’UNICEF, d’inverno fanno anche lezioni di recupero scolastico, per una media di 130/150 bambini al giorno, ma non c’è acqua corrente né latrine.
“Tell the world”
I bambini per lo più vengono dalle lunghe file di container metallici impilati su due file sovrapposte, qui a fianco, dove vivono decine di famiglie, tra topi e sporcizia ma con uno sforzo sovrumano per abbellire con carta stagnola e stoffe colorate queste misere “case”. Aspettano una ricostruzione che non si sa quando arriverà.
È settembre e nei container ci saranno 40 gradi, le donne ci chiedono di fotografare le loro case ma non loro stesse, perché si vergognano della propria miseria; implorano che gli si dia del topicida, perché vari bambini sono stati morsi dai ratti, ma soprattutto ci ripetono in brandelli di ogni lingua possibile “tell the world”, ditelo al mondo.
Marwa sorride e continua a far giocare i bambini, per regalare loro qualche ora di gioia. In nome di Dio, chi dà a gente come lei la forza di sorridere gentilmente e lavorare serena coi piccoli? Chi dà alle donne dei container la forza di accogliere con un sorriso i visitatori?
Usciamo con gli occhi bassi e il cuore gonfio, sarebbe quasi più giusto che accogliessero gli estranei a pietrate. Ma cascasse il mondo, ci sentiamo impegnati ad alimentare, per quanto possibile, il filo di “resilience” (speranza? resistenza?) che queste ragazze e queste donne continuano a tessere.